#033 safeword

di tutte tutte ce n'è una speciale
una che resta fuori dal giro della danza
una che non frequenteresti
una che speri di non incontrare mai
eppure è invitata ad ogni festa
si nasconde nell'ombra
si esprime in modo chiaro
poche sillabe, a mezzo fiato
e quando lei arriva la musica si ferma e si accendono le luci
e quando si presenta ci sono occhi che si riaprono
e quando lei arriva ci sono apnee che si fermano
e quando si presenta ci sono magie che si spengono

di tutte ce n'è una speciale
si. speciale.
speciale e, per ciascuno, diversa.
safeword.


#31 sensori di prossimità.


il punto di partenza è sempre lo stesso: questo posto vuoto, immenso e senza odori.
metto a fuoco un puntino, sono io.
atterro, mi rialzo, mi rassetto. accendo il radar. scandaglio.
giro un po', trovo posti, leggo gente, faccio qualche prova, qualche commento.
passo da un posto all'altro, leggo, leggo, leggo, qualcosa alla fine comprendo.
pian piano il quadrante del mio radar si popola di puntini.
bianchi, quelli interessanti,
verdi, quelli divertenti,
poi ci sono quelli rossi.
e per me il rosso è emozione.
scopro il rosso leggendo, scavando, a volte è una sola frase nascosta in un post vecchio di mesi o anni, a volte è una chiamata alle armi per i sensi accesi in quel momento, a volte è un sovrapporsi armonico di note. altre ancora un pugno secco sotto la cintura.
e quando scopri il rosso non puoi farne a meno. devi toccarlo, allungare il pensiero, devi intingere il pennello e provare a scrivere qualcosa.. e scopri che il rosso è contagioso in modo diffusivo, scrivi una cosa e mentre la scrivi ogni colore comincia a virare, in una propagazione che contamina le parole come le intenzioni.
e quando hai scritto e rileggi ti accorgi che da qualche parte, in qualche modo,  il contagio è entrato.
si crea un legame tra te e le tue parole e tra le tue parole e il posto che te le ha strappate dal fondo e fatte affiorare. e, se come spesso è, quel posto è la stanza calma di una persona, si crea un legame con essa.
inevitabilmente.
le parole che si bagnano.
senza necessità di interloquire.
senza parlarsi.
il resto è una scelta.

ma questo non è intimità: non c'è contatto, non c'è promessa, non c'è futuro, non c'è vita da mettere sul piatto, non qui, non per me.
e non è virtuale, visto che non ho posti diversi dal cuore, io. io no. quello che accade accade lì.
la domanda me l'ha posta ella, ma la giro a tutti e azzardo la mia risposta:
la domanda è semplice: che senso ha tutto questo?
tutto questo giro di emozioni, tutto questo cercare parole bagnate, tutto questo scandagliarti dentro, che senso ha se non porterà a nulla? se non è un amore nuovo, se non è un'altra vita, se non è neppure una scopata quella che cerchi qui?

Ero su di un divano all'aria aperta a parlare di regole e di giudici e l'ho vista così:
ho parole nuove tatuate sotto le palpebre. punto la luce. chiudo gli occhi. leggo.
e a volte trascrivo.

ieri ho letto un post. ho chiuso gli occhi, ho visto una cosa, e l'ho scritta per come l'ho vista.
c'era del rosso, in quella polaroid. l'ho lasciato lì, su di una panchina in un parco. e aveva un senso.
prossimità.
il senso che tutto questo ha per me.
impiastricciarmi con le emozioni che l'altrove del mondo disperde in questi posti.
le deiezioni dell'anima, sostanza rossa.

(e voi che siete bravi, fateci letteratura.)






#30 l'incastro.


l'incastro.
finisce sempre così. 
con un incastro.
quando arrivi sei libero.
ti muovi leggero.
usi, cerchi, trovi, maneggi, capti, parole vecchie per farne parole nuove.
poi ne aggiungi altre. alcune si bagnano, alcune scappano in alto.
la nuvola prende consistenza, prende colori.
le cose di cui ti nutri diventano sempre più importanti.
si creano dei legami.
prima leggeri, piccoli tocchi e rimbalzi, reattivi.
poi sempre più intensi, ne cerchi il suono, quello profondo.
in qualche caso appoggi l'orecchio. ascolti la nota, la studi, la fai tua, provi qualche semplice melodia.
e provi ad impararla, a suonarla tu, a farla cantare,
prima da solo, poi con altri, provi, pensi di riuscire.
poi arriva. 
sempre. 
una partitura che prevede uno strumento che tu non hai.
non ce l'hai e non puoi suonarla, quella cosa.
e non puoi promettere che la potrai suonare.
i confronti diventano complicati.
certe inclinazioni diventano dirupi,
certi esser lieve diventano leggerezze.
certi contrappunti diventano ricatti.
e siamo già ben oltre il peccato.
e allora succede.
succede l'incastro.
una morsa di cemento a presa rapida che comincia a stringere.
e sai che non smetterà.
fino a quando tu non te ne andrai.
qualche volta l'incastro ha un nome.
qualche volta nemmeno te lo dice.
qualche volta ha un volto.
qualche volta ne ha mille.
e scopri che forse non oggi, forse non stanotte, 
ma che andrai,
che tu non hai quello che serve per restare a lungo, qui.
non hai i modi, non hai moneta, non hai futuro da mettere in pegno.
e quello che puoi fare è guardarti intorno e cercare qualcosa o qualcuno 
da portare con te.
il buono da tenere.
e la via che ti aspetta, in fondo, 
altro non è
che la strada per Itaca.
ancora lontana.


#029 testa sotto.


era da piccoli, che si giocava così.
un manico di scopa e una coperta, una poltrona rovesciata, una botola di accesso al sottotetto scoperta in cima alle scale della grande casa.
ci volevano queste cose per soddisfare il nostro bisogno di altrove.
di posti semibui e polverosi dove le regole dei grandi non potevano entrare. posti dove il confronto era tra noi. 
posti dove bambini e bambine scoprivano le differenze al gioco del "prima tu."
posti dove abbiamo fatto le nostre prove. posti in cui abbiamo scoperto cose importanti, come l'essere etero oppure altro, con l'occhio del bambino non ancora incattivito dalla competizione armata dei compagni di classe. 
alcune delle mie risposte più vere le ho trovate lì, me le ha sussurrate una cuginetta di terzo grado a cui non dispiaceva che io, bambino come lei, le brigassi tra le gambe.
il gioco finì quando una madre ci sorprese. ci furono conseguenze, immagino consigli di famiglia, discorsi tra genitori, ma nulla di tutto questo arrivò fino a noi. vinse il quieto vivere. ma non accadde più. eravamo oltre. 
il senso del peccato era entrato nella nostra vita.

oggi il cielo è quello che è. e risulta difficile oggi pensare che il cielo possa essere stato un giorno diverso da questo. 
è il cielo di novembre quando viene d'ottobre. 
quello senza riferimenti, piatto e incapace di baciare l'orizzonte.
eppure è sotto un cielo così incapace di far succedere qualcosa, così privo di appigli e di attrito, che le cose possono accadere nell'unico modo in cui possono accadere davvero: 
scivolando.

rintanarsi in questo posto fatto di echi attutiti, di riflessi filtranti, di suoni ovattati.
ancora una volta ritrovarsi a ribaltare il canotto per restarci sotto e sentire lo sciacquettio assoluto, e rinunciare a cercare il fondo con i piedi mentre fuori l'onda cresce e decide per noi.
e mentre la realtà si infiltra e l'aria comincia a farsi più povera ritrovare il senso del tempo. del termine.
e allora raccogliere le forze, i propositi e prepararsi al rientro. 
e dentro il rumore dell'acqua e l'eco corta di tela gommata sforzarsi di distillare le parole da portare con noi nella luce del giorno, rubando giusto il tempo per trascriverle qui.
e infine, prima di riemergere, riempirci i polmoni di quest'aria d'altrove.
tre volte e pronti e via.

io vado, chi viene?









#028 le parole quando si bagnano.

affiorano dal tuo abisso e sono asciutte.
se sei bravo e fortunato una volta fuori le riesci a mantenere sospese.
sopra l'onda,
le fai girare sopra il pelo dell'acqua.
tutti le vedono, alcuni le leggono.
se sei bravo e fortunato.

e loro, le parole, girano sopra di te che le guardi
uno stormo di vocali e consonanti che si inseguono.
un turbine di pensieri che si rincorrono e si agganciano.
se guardi in basso ne vedi l'ombra.
riesci a leggere frammenti.
a cogliere piccole verità da mettere insieme con calma, poi, al buio.

dopo un po' alle tue parole se ne aggiungono altre.
molte ti sono rimaste attaccate sotto le suole mentre giravi qua e là in questo posto strano.
molte sono venute a trovarti, alcune sono rimaste.
altre ancora le ritrovi in trasferta. vive come mai. e sono ponti.
fai finta che ti basti.

ma non ti basta.
perché tu le parole asciutte non ci riesci proprio, ad attaccartele addosso.
perché le parole che servono davvero
sono le parole quando si bagnano.